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MAX MANDEL
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Appunti di viaggio
Fotografo colto, dotato di un’attenzione scientifica e infallibile, temprata nelle ricerche iconografiche per importanti case editrici e, soprattutto, nella documentazione archeologica, Max Mandel, è prima d’ogni altra cosa un grande poeta dell’immagine. La sua arte, riconosciuta da anni in prestigiose sedi nazionali e internazionali, è molto più vicina alla pittura di quanto non lo sia alla cinematografia.
Finissimo esteta della forma evocativa e perfetta, il suo sguardo è antico: evita con nobile modestia ogni rielaborazione tecnologica, ogni purificazione o deformazione sperimentale. Lì, dove non siamo abituati a guardare, la realtà gli si svela di per sé vibrante, inattesa, carica di riferimenti e densa di significati. L’occhio di Mandel – «egli è un occhio» ha scritto di lui Cartier Bresson – cerca il punto di svelamento di “microcosmi lirici” che ci circondano insospettati, cattura il luogo minuscolo e magico dove la realtà esperita dai sensi si svela metaforica e si spoglia di ogni disattenzione.
A lui, figlio di un maestro del Sufismo – la mistica iniziatica e universale dell’Islam – non dispiacerà forse un riferimento alla filosofia dell’arte dell’India shivaita. Difatti, la levigatezza formale, davvero non comune, delle sue opere, sempre allusive e intense, rimanda al concetto sanscrito di “rasa”, con cui si indica quell’assaporamento estetico del tutto simile all’esperienza mistica dell’Assoluto, alla libertà spirituale e che anche il Cristianesimo della Riforma cattolica conosce, in religione e in arte come “gustus”: godimento del Bello, godimento di Dio che sono una cosa sola. D’altronde l’ordito del reale che il suo obbiettivo ha avvinto e rivelato ricorda piuttosto un altro concetto sanscrito: il “dhvani”, ossia il significato suggerito. Così se l’immagine piena porta al pieno “sapore” dell’invisibile che la permea come un’aura, tutti i suoi squisiti particolari simili a finissimi sistri suggeriscono sensi e interpretazioni. Non concetti, tuttavia, ma fiabe e miti dell’infinitamente piccolo o del nascosto. D’altro canto anche Aby Warburg (1866-1929) ci rammenta che Dio si nasconde nei dettagli.
L’ultimo concetto filosofico che ben si addice a questa ricerca iconografica del quotidiano misterioso è “samvega”, il sommo brivido estetico che nasce quando l’occhio e l’animo sono perturbati dal divino, lì dove non lo si aspetta e ce lo si mostra con un sorriso umile e arguto.
Alessandro Giovanardi